Mio padre e mia madre sono venuti in
Italia in aereo.
Non hanno preso un barcone, ma un comodo
aeroplano di linea.
Negli anni settanta del secolo scorso
c’era, per chi veniva dal sud del mondo come i miei genitori, la possibilità di
viaggiare come qualunque altro essere umano. Niente carrette, scafisti, naufragi,
niente squali pronti a farti a pezzi. I miei genitori avevano perso tutti i
loro averi in un giorno e mezzo. Il regime di Siad Barre, nel 1969, aveva preso
il controllo della Somalia e senza pensarci due volte mio padre e poi mia madre
decisero di cercare rifugio in Italia per salvarsi la pelle e cominciare qui
una nuova vita.
Mio padre era un uomo benestante, con una
carriera politica alle spalle, ma dopo il colpo di stato non aveva nemmeno uno
scellino in tasca. Gli avevano tolto tutto. Era diventato povero.
Oggi mio padre avrebbe dovuto prendere un
barcone dalla Libia, perché dall’Africa se non sei dell’élite non c’è altro
modo di venire in Europa. Ma gli anni settanta del secolo scorso erano diversi.
Ho ricordi di genitori e parenti che andavano e venivano. Avevo alcuni cugini
che lavoravano nelle piattaforme petrolifere in Libia e uno dei miei fratelli,
Ibrahim, che studiava in quella che un tempo si chiamava Cecoslovacchia.
Ricordo che Ibrahim a volte si caricava di jeans comprati nei mercati rionali
in Italia e li vendeva sottobanco a Praga per mantenersi agli studi. Poi
passava di nuovo da noi a Roma e quando era chiusa l’università tornava in
Somalia, dove parte della famiglia aveva continuato a vivere nonostante la
dittatura.
Se dovessi disegnare i viaggi di mio
fratello Ibrahim su un foglio farei un mucchio di scarabocchi. Linee che
uniscono Mogadiscio a Praga passando per Roma, alle quali dovrei aggiungere
però delle deviazioni, delle curve. Mio fratello infatti aveva una moglie
iraniana e viaggiavano insieme. Quindi c’era anche Teheran nel loro orizzonte e
tanti luoghi in cui sono stati ma che ora non ricordo con precisione.
Mio fratello, da somalo, poteva spostarsi.
Come qualsiasi ragazzo o ragazza europea. Se dovessi disegnare i viaggi di un Marco
che vive a Venezia o di una Charlotte che vive a Düsseldorf dovrei fare uno
scarabocchio più fitto di quello che ho fatto per mio fratello Ibrahim. Ed ecco
che dovrei disegnare le gite scolastiche, quella volta che il suo gruppo
musicale preferito ha suonato a Londra, le partite di calcio del Manchester
United, poi le vacanze a Parigi con la ragazza o il ragazzo, le visite al
fratello più grande che si è trasferito in Norvegia a lavorare. E poi non vai
una volta a vedere New York e l’Empire State Building?
Per un europeo i viaggi sono una
costellazione e i mezzi di trasporto cambiano secondo l’esigenza: si prende il
treno, l’aereo, la macchina, la nave da crociera e c’è chi decide di girare
l’Olanda in bicicletta. Le possibilità sono infinite. Lo erano anche per
Ibrahim, nonostante la cortina di ferro, anche nel 1970. Certo non poteva
andare ovunque. Ma c’era la possibilità di viaggiare anche per lui con un
sistema di visti che non considerava il passaporto somalo come carta igienica.
Oggi invece per chi viene dal sud del
mondo il viaggio è una linea retta. Una linea che ti costringe ad andare avanti
e mai indietro. Si deve raggiungere la meta come nel rugby. Non ci sono visti,
non ci sono corridoi umanitari, sono affari tuoi se nel tuo paese c’è la dittatura
o c’è una guerra, l’Europa non ti guarda in faccia, sei solo una seccatura. Ed
ecco che da Mogadiscio, da Kabul, da Damasco l’unica possibilità è di andare
avanti, passo dopo passo, inesorabilmente, inevitabilmente.
Una linea retta in cui, ormai lo sappiamo,
si incontra di tutto: scafisti, schiavisti, poliziotti corrotti, terroristi,
stupratori. Sei alla mercé di un destino nefasto che ti condanna per la tua
geografia e non per qualcosa che hai commesso.
Viaggiare è un diritto esclusivo del nord,
di questo occidente sempre più isolato e sordo. Se sei nato dalla parte
sbagliata del globo niente ti sarà concesso. Oggi mentre riflettevo
sull’ennesima strage nel canale di Sicilia, in questo Mediterraneo che ormai è
in putrefazione per i troppi cadaveri che contiene, mi chiedevo ad alta voce
quando è cominciato questo incubo, e guardando la mia amica
giornalista-scrittrice Katia Ippaso ci siamo chieste perché non ce ne siamo
rese conto.
È dal 1988 che si muore così nel
Mediterraneo. Dal 1988 donne e uomini vengono inghiottiti dalle acque. Un anno
dopo a Berlino sarebbe caduto il muro, eravamo felici e quasi non ci siamo
accorti di quell’altro muro che pian piano cresceva nelle acque del nostro
mare.
Ho capito quello che stava succedendo solo
nel 2003. Lavoravo in un negozio di dischi. Erano stati trovati nel canale di
Sicilia 13 corpi. Erano 13 ragazzi somali che scappavano dalla guerra scoppiata
nel 1990 e che si stava mangiando il paese. Quel numero ci sembrò subito un
monito. Ricordo che la città di Roma si strinse alla comunità somala e venne
celebrato a piazza del Campidoglio dal sindaco di allora, Walter Veltroni, un
funerale laico. Una comunità divisa dall’odio clanico quel giorno, era un
giorno nuvoloso di ottobre, si ritrovò unita intorno a quei corpi. Piangevano i
somali accorsi in quella piazza, piangevano i romani che sentivano quel dolore
come proprio.
Ora è tutto diverso.
Potrei dire che c’è solo indifferenza in
giro.
Ma temo che ci sia qualcosa di più atroce
che ci ha divorato l’anima.
L’ho sperimentato sulla mia pelle
quest’estate ad Hargeisa, una città nel nord della Somalia.
Una
signora molto dignitosa mi ha confessato, quasi con vergogna, che suo nipote
era morto facendo il tahrib, ovvero il viaggio verso l’Europa.
“Se l’è mangiato la barca”, mi ha detto.
La signora era sconsolata e mi continuava a ripetere: “Quando partono i ragazzi
non ci dicono niente. Io quella sera gli avevo preparato la cena, non l’ha mai
mangiata”. Da quel giorno spesso sogno barche con i denti che afferrano i
ragazzi per le caviglie e li divorano come un tempo Crono faceva con i suoi
figli. Sogno quella barca, quei denti enormi, grossi come zanne di elefante. Mi
sento impotente. Anzi, peggio: mi sento un’assassina perché il continente,
l’Europa, di cui sono cittadina non sta alzando un dito per costruire una
politica comune che affronti queste tragedie del mare in modo sistematico.
Anche la parola “tragedia” forse è fuori
luogo, ormai dopo venticinque anni possiamo parlare di omicidio colposo e non
più di tragedie; soprattutto ora dopo il blocco da parte dell’Unione Europea
dell’operazione Mare Nostrum. Una scelta precisa del nostro continente che ha
deciso di controllare i confini e di ignorare le vite umane.
Nessuno di noi è sceso in piazza per
chiedere che Mare Nostrum fosse ripresa. Non abbiamo chiesto una soluzione
strutturale del problema. Siamo colpevoli quanto i nostri governi. Non a caso
Enrico Calamai, ex viceconsole in Argentina ai tempi della dittatura, l’uomo
che salvò molte persone dalle grinfie del regime di Videla, sui migranti che
muoiono nel Mediterraneo ha detto: “Sono i nuovi desaparecidos. E il riferimento non è
retorico e nemmeno polemico, è tecnico e fattuale perché la desaparición è una modalità di sterminio di massa, gestita in modo
che l’opinione pubblica non riesca a prenderne coscienza, o possa almeno dire
di non sapere”.
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